La violenza contro il proprio corpo. Una sfida clinica

 International Federation of Psychoanalitic Societies

Violence, Terror and terrorism today.

A psychoanalitic perspective

XIX International Forum of Psychoanalysis

Mai 12-15 2016

In New York City

Violence against your body: A clinical CHALLENGE

(C. Bartocci, a cura di Una vita accanto alla sofferenza mentale, F. Angeli 2010)

IL CASO DELL’UOMO TRASPARENTE DI EUGENIA OMODEI ZORINI. 

 

Il quesito.

Vorrei discutere questo caso con voi sia per i problemi diagnostici che pone, sia anche per alcuni aspetti del controtransfert. Nel caso di Giovanni si presenta con incredibile chiarezza il fenomeno del “Doppio”, alter Ego persecutorio che drammaticamente interviene nell’esistenza del paziente e questo mi ha portato a pensare a Giovanni come ad un classico isterico. Ma il collega psichiatra  che lo seguiva aveva diagnosticato una psicosi perché alcune tematiche sono effettivamente deliranti.

Il mio controtransfert sosterrebbe la diagnosi di isteria, nel senso che mi sono trovata in seduta a fare fantasie legate al pene del paziente. Fantasie che pure non comunicate sembrano aver prodotto positivi cambiamenti. Mi chiedo quindi se queste fantasie siano state indotte in me dal paziente, dalla pressione esercitata da suoi bisogni estremamente intensi o se non vadano invece letti come effetto di miei problemi irrisolti di natura naturalmente isterica.

La storia di vita.

Centrale nella storia di Giovanni è la morte del padre che avviene improvvisamente quando lui ha tredici anni. Attorno a questa morte mi sembra ruoti tutta la sua vicenda di vita.

Il padre era un industriale. Alla sua morte la fabbrica è stata diretta dallo zio, fratello del padre, che l’ha quasi fatta fallire. Giovanni lavora in questa azienda, ma sembra non avere chiara la situazione in cui si trova. La madre è descritta come una donna ansiosa, timida, che si è sposata solo a 38 anni dopo aver rifiutato vari pretendenti. Da adolescente Giovanni ha partecipato attivamente ai movimenti terroristici ma ha completamente dimenticato tutto il periodo adolescenziale e in particolare il momento cruciale di tale periodo, cioè la sua età all’epoca della morte del padre.

La terapia.

Giovanni presenta una sintomatologia molto importante. Il collega che me ne parla sottolinea, tra i vari aspetti che definisce psicotici, che al Rorschach il paziente non ha visto nessuna figura umana. Giovanni ha intensissime paure di andare incontro ad una disgregazione psicofisica e in fondo pensa che ciò sia necessario perché non trova alcun senso alla propria esistenza. Il “doppio” che da sempre ha fatto parte della sua vita, che forse è comparso proprio con la morte del padre, scompare all’inizio della sua attività politica. Giovanni mi dice che quando guarda nello specchio vede un uomo che non riconosce. Lui che è invece in grado di conoscere tutto degli altri, guardando dentro di loro. Giovanni sente di poter essere “trasparente” e di poter osservare tutti senza essere visto Può avere solo rapporti a distanza, rendendosi trasparente. Non riesce ad avere rapporti profondi con nessuno. Vive nel terrore di essere abbandonato da tutti, di perdere tutti. Di trovarsi unico abitante del mondo. Scrive questi suoi vissuti in un diario che a tratti mi legge in seduta ma che io ho fatto molta fatica a portare qui perché mi sembra di violarlo. “Quale altro mezzo posso trovare per sopravvivere, scrive ad esempio, se non nascondere profondamente questi sentimenti di odio? Sono il modo di una vendetta. Io solo sopravviverò alla slavina psicopatologica dell’odio? Quello che poteva desiderare queste cose era un assassino, e allora non resta che non esistere.”

Giovanni è estremamente ambivalente nei miei confronti.

Vuole mostrarmi i suoi diari ma al tempo stesso me li vuole nascondere.

E questa è forse la stessa ambivalenza che provo io nei confronti del gruppo. Immagino che questo voler mostrare e nascondere al tempo stesso abbia a che fare con un transfert materno e con i suoi vissuti sessuali.

Penso che questo transfert sia intrecciato con l’Edipo, che egli abbia paura del padre morto, presentissimo nella sua assenza, e che a questo si leghino i suoi sensi di colpa.

Non solo i diari ma anche l’’analisi è costellata di vissuti e sogni di questo tenore.

Il sogno con cui Giovanni inizia l’analisi è quello di un orribile vecchio incontinente. Ne è molto disgustato, vuole cacciarlo ma non sa come fare. Poi trova la voce per dirgli gentilmente di andarsene e a quel punto il vecchio si trasforma in un giovane uomo che gli assomiglia.:

In un sogno che mi presenta come “bello”  lui sta nuotando in mare ed incontra un numero sempre crescente di cadaveri che galleggiano. Continua a nuotare ma i cadaveri, putrefacendosi, gli impediscono di respirare. In un altro sogno suo fratello ineluttabilmente deve ucciderlo e lui sente che questo è giusto e deve accettare la condanna ma, improvvisamente, si ribella e gli dice di no. Non si lascerà ammazzare. A quel punto prova un intenso senso di liberazione interiore. Ma subito dopo sogna il processo in cui la figlia viene condannata a morte e lui la deve portare sulla sedia elettrica  Giovanni quando lo incontro ha 35 anni. Si è sposato da cinque anni e ha una bambina di quattro anni. E’ terrorizzato da quello che, oltre a lui, può capitare a moglie e figlia a causa delle orribili cose che lui ha fatto. E’ un uomo che io sento come incredibilmente sofferente ma molto intelligente e profondo. Lo vedo quattro volte alla settimana. Esco dalle sedute esausta. Mi sembra che Giovanni mi consumi. Il lavoro con lui è durissimo. Sono sempre attentissima ma a lui sembra che nulla possa bastare. Lo sento e spesso mi sento davvero trasparente. Spesso mi attacca ma in fondo penso possa avere le sue ragioni. Non sono sicura di quello che faccio con lui. La sua sofferenza per le difficoltà ad avere rapporti con la moglie mi coinvolgono. Sogno che possa ritrovare sicurezza nella sua virilità e un giorno mi trovo in seduta a fare la fantasia di accarezzargli il pene. Mi sorprendo e preoccupo. Sono imbarazzata, mi chiedo cosa stia succedendo perché mi sembra di non avere un atteggiamento seduttivo nei confronti di Giovanni. Sono poi rimasta estremamente colpita dal fatto che Giovanni, nel corso della seduta successiva, mi abbia raccontato di essere riuscito a masturbarsi e di aver provato moltissimo piacere. Come non accadeva da tempo.

La notte sogna un meraviglioso coito con la protagonista di un balletto. Lui prende la donna sul palcoscenico mentre tutti stanno a guardare.

Commenta dicendo che comincia a pensare di avere il “diritto di essere forte”.

Ritrovare la capacità di provare piacere lo entusiasma e lo spaventa al tempo stesso.

Cerca e teme la dipendenza.

Dall’analista. Dalla sessualità. Dalla moglie e dalla figlia.

Avverte “la forza che lo tira indietro da ogni piacere della dipendenza”;  avverte l’analisi come un processo di cambiamento e sente che la strada che porta al “ricevere la propria identità da parte di una donna” è chiusa e aperta allo stesso tempo.

Giovanni sembra poi sperimentare il vissuto fisico della propria rinascita, un vissuto terribile….in cui si trova sudato e spaventato nel mezzo di  scoppi di luce e strani lampi ad uscire con forza da un tunnel….per scoprire che, uscito da lì avrà perso il suo potere e non potrà mai più essere trasparente. La lotta di Giovanni è potente. Uscire dal tunnel e rinunciare al suo potere di stare dentro gli altri o rinunciare?

Di fronte a tutte queste sue contraddizioni e ambivalenze cerco di rimanergli accanto attiva, insistendo con le domande e le confrontazioni; ma rispetto, al tempo stesso la sua paura di esporsi,

Credo che l’intensità del mio contrtotransfert mi abbia dotato della capacità di inserirmi nel suo modo di pensare.

9. Il “parricidio” e la comparsa del “Doppio”. Commento di G. Benedetti al caso “dell’uomo trasparente” di E. Omodei Zorini. (ottobre 1986)

Inizio la mia sintesi con una tesi, che dopo quanto è stato scritto e detto, non ha bisogno di uno svolgimento, anche perché formulata dal paziente stesso in modo conciso e preciso nei suoi diari: Giovanni ha ucciso nella sua adolescenza il fantasma del proprio padre. “Questo odio, questo desiderio di distruzione nei confronti di una figura amata, bella e forte…”

L’aggressione verso il padre non è stata successiva alla sua morte, come reazione al sentirsi abbandonato da lui, ma è stata una aggressione di natura edipica, che nella coincidenza fatale con l’effettiva morte del padre, ha assunto nell’inconscio carattere di realtà. L’uccisione del padre ha dato il via sia alla dinamica della colpa, sia allo sviluppo ulteriore del nucleo distruttivo, il quale ha a sua volta prodotto un vissuto di responsabilizzazione totale ed un bisogno di punizione perpetua. Attraverso la comparsa del “doppio” persecutorio; attraverso l’angoscia della nullificazione e della disgregazione e attraverso l’angoscia dell’autocastrazione, ossia della perdita dell’identificazione con la figura paterna: “mio padre è morto e io non sarò mai un uomo”. La parte maschile è lesa, scompare e con essa lui pure diventa “invisibile” e, in questa invisibilità emerge la parte femminile, frutto dell’identificazione con la madre, per amore della quale lui ha ucciso il padre. L’identità di Giovanni è dunque mista: una parte femminile sta accanto alla metà maschile; da un canto lui vuole recuperare la sua identità attraverso una donna, successivamente attraverso la terapeuta, ma “la strada è chiusa” dice lui stesso; d’altro canto cerca di rinforzare l’identità maschile attraverso l’esperienza della violenza politica o attraverso la convivenza con l’amico “schiavo” di cui lui è “il padrone”. Ma questa tragicommedia della fallicità gli fa infine orrore e fa nascere il terrore che l’analista gli imponga di essere fallico. E’ felice con l’amica presso la quale può permettersi di non essere fallico, ma al tempo stesso infelice perché teme di non poter divenire mai un uomo. Una contraddizione perpetua che viene enormemente aggravata da un senso orrendo e continuo di colpa, che infine conduce alla “cosificazione della colpa”. “Cosificazione della colpa” che fa divenire quest’ultima la sua realtà concreta, ossia una “cosa” spessa ed altrettanto terribilmente ingombrante di quanto lo è la sua stessa identità: “struttura ingombrante e deformante”, si legge nel diario. La cosificazione della colpa fa da contrappeso a quella che io vorrei chiamare “la de-cosificazione della realtà”: mentre cioè quello che è astratto, la colpa fantasmatica, diviene concreto, ossia colpa reale e “cosa”; quel che è invece reale, ossia la rovina dell’azienda paterna ad opera dello zio, cessa di esistere, sostituita dalla convinzione di essere lui la causa di tale rovina. Siamo dunque in piena psicosi e l’episodio psicotico giovanile ne è una traccia. Per quale motivo Giovanni ha perpetrato il parricidio? Non per “un odio legittimo” verso un padre scadente o crudele; la figura paterna era amata e Giovanni si commuove quando nei ricordi riesce a recuperarla. Ipotizziamo allora che si sia trattato di un parricidio edipico, essendo lui “il figlio amato dalla madre, il figlio edipico” e, seguendo questa linea di pensiero ipotizziamo anche che Giovanni, perpetrando il parricidio per amore edipico nei confronti della madre, abbia perduto l’oggetto d’amore maschile ed offerto quindi alla madre “il sacrificio della sua sessualità”, come dice il paziente stesso all’analista. Non è difficile immaginare che tale parricidio edipico sia stato favorito da una personalità materna di tipo nevrotico. La madre è descritta come una donna ansiosa, timida, che si è sposata solo a 38 anni dopo aver rifiutato vari pretendenti: una donna quindi che, a causa delle sue inibizioni sessuali, possiamo immaginare come “castrante” nei confronti del marito, al quale pare abbia sostituito il figlio, eletto come suo vero partner. In quest’ottica la personalità di Giovanni ci appare come nettamente isterica, come anche il fenomeno del “Doppio”, largamente descritto nella psicopatologia dell’isteria, farebbe ipotizzare. Il fatto che però Giovanni non si sia limitato al parricidio fantasmatico, ma che abbia “agito” la sua aggressività sul piano sociale quale terrorista, comporta un salto di qualità: la colpa nevrotica, fantasmatica, infantile, diviene colpa esistenziale e la “cosificazione della colpa” è qualcosa di più di un semplice fenomeno isterico. Il vissuto di disgregazione psicofisica non è solo un sintomo di spersonalizzazione isterica, ma esprime anche un dubbio sul significato della propria esistenza; dubbio che non potrà mai essere risolto fino a che il paziente, pur tormentato dall’esterno dalla “cosificazione della colpa”, la rimuove come vissuto interno. Come nel sogno da lui definito “bello” dei cadaveri galleggianti sul mare che, putrefacendosi, gli impedivano di respirare. In queste poche righe è racchiuso tutto il dramma di Giovanni. Dramma che non ritengo possa essere spiegato solo attraverso il determinismo psicologico, ma anche ammettendo che un impulso distruttivo, la cui origine sta nell’uomo stesso, si è impadronito del meccanismo edipico per articolarsi biograficamente. I vari dettagli della biografia di Giovanni possono venir facilmente compresi sullo sfondo di questo schema. In questo senso sono interpretabili: l’amnesia isterica di tutto il periodo adolescenziale ed in particolare del momento cruciale di tale periodo, cioè la sua età all’epoca della morte del padre; la proiezione, nel sogno, della pulsione omicida sul fratello che “ineluttabilmente” deve ucciderlo e il senso di liberazione interiore provocato dalla sua improvvisa capacità di dirgli di no; l’identificazione punitiva con tale pulsione omicida nel sogno in cui deve portare la figlia, che naturalmente è lui, sulla sedia elettrica; la scomparsa del doppio fantasmatico all’inizio della sua attività politica, in cui lui l’agisce; la dialettica psicopatologica dello specchio per cui da un canto lui non può riconoscersi allo specchio ma dall’altro compensa questa lacuna “guardando dentro gli altri”, immaginando di poterli vedere senza essere visto, mentre in realtà non vede nessuno in quanto completamente assorbito dai suoi fantasmi persecutori. Non riesce ad avere rapporti profondi con l’altro ed al Rorschach non vede nessuna figura umana. L’essere abbandonato, perdere tutti è il suo dramma perché lui, posseduto dalla pulsione distruttiva, abbandona tutti, come nel sogno in cui si immerge sott’acqua per non vedere le sue vittime. “Quale altro mezzo posso trovare per sopravvivere, scrive nel diario, se non nascondere profondamente questi sentimenti di odio?” “Sono il modo di una vendetta” scrive, ma in realtà “la slavina psicopatologica dell’odio” fa si che la pulsione omicida si rivolti contro lui stesso  provocando poi reattivamente, per “vendetta”, nuove pulsioni distruttive nei confronti dell’altro. Vorrei tuttavia, prima di parlare della psicoterapia, sottolineare gli aspetti profondamente positivi di tale psicopatologia. Giovanni ha la capacità non solo di comprendere, attraverso l’analisi, i meccanismi infantili dell’aggressività, ma anche di compiere il lavoro del lutto nei confronti della sua stessa esistenza, come dimostrano in modo toccante i suoi diari. E forse la sua riluttanza a mostrarli dipende, oltre che dalla dinamica del transfert, di cui parleremo in seguito, anche dalla riluttanza a mostrare questi aspetti positivi ma oltremodo intimi della sua persona. Giovanni ha poi avuto la forza di dire “no” alla morte, come nel sogno precedentemente citato del fratello omicida. Significativo è anche il suo sogno iniziale in cui il vecchio incontinente, che potrebbe rappresentare il suo passato incontinente, si trasforma nel giovane uomo che gli assomiglia: nel confronto con la propria identità attuale. Giovanni ha anche il vissuto fisico della propria rinascita, un vissuto terribile (scoppi di luce etc.) proprio perché genuino e diviene tanto inesorabile nei confronti della sua pulsione di morte quanto questa era ineluttabile nei suoi riguardi. Leggiamo infatti le parole ciclopiche: “Quello che poteva desiderare queste cose era un assassino, e allora non resta che non esistere.” Giovanni mi appare così “ben più” che un paziente isterico. Ad inquadrarlo sul piano psicopatologico direi un paziente depresso che osa trasporre l’autoaccusa depressiva, fattagli dal “doppio”, e l’auto nullificazione depressiva in una “questio mihi factùs sum”, in una vera indagine analitica. La quale gli diventa così essenziale che la dipendenza dalla figura materna, impersonata dalla terapeuta, si trasforma nella capacità di accedere al proprio benessere anzitutto entro l’analisi. E con ciò veniamo brevemente anche all’analisi. Debbo anzitutto dire che la mia messa a nudo della pulsionalità omicida di Giovanni non è minimamente colpevolizzante; io la sento anzi più profondamente accettante che se mi limitassi alla riduzione psicogenetica perché sento profondamente la sofferenza di quest’uomo per la “ineluttabilità” di una pulsione che lui non vorrebbe avere, ma che lo insegue come un suo secondo Io. La profonda accettazione di questo paziente da parte della terapeuta; la sua grande attenzione; il coinvolgimento in un lavoro sentito come duro ed estenuante; la ricezione tranquilla delle accuse; la profonda identificazione con la sua ricerca di virilità, che porta l’analista ad avere la fantasia di accarezzargli il pene; la capacità della terapeuta di evitare sia qualsiasi atteggiamento superegoico nella confrontazione con la colpa e sia anche di parlargli chiarissimo mostrandogli i suoi impulsi omicidi, in modo così umano che lui “beve le parole della terapeuta”, sono la base controtransferale veramente “portante” di questa analisi. E’ da notare, a proposito della fantasia di accarezzare il pene del paziente, come l’inconscio terapeutico agisca indipendentemente dall’Io del terapeuta. Tant’è che l’analista era sorpresa ed imbarazzata dalla sua stessa fantasia terapeutica. Ed è interessante notare come tale fantasia abbia agito terapeuticamente provocando un piacere masturbatorio nel paziente, al di là di una comunicazione verbale: indice questo della trasmissione di segni lungo quel continuum che si stabilisce spesso tra i due sistemi inconsci. Fenomeni simili, che io ho descritto nella psicoterapia delle psicosi, accadono anche con pazienti nevrotici e questo è appunto un contributo della psicoterapia delle psicosi alla psicoanalisi tutta. Il transfert del paziente subisce varie trasformazioni e lo tratteggio qui solo in alcuni dei suoi tratti fondamentali. Centrale è l’atteggiamento polemico nei confronti della figura femminile, che ripete e sviluppa quella materna. Una figura femminile da cui lui può ricevere il pene, ma che lo può anche castrare. Il problema del pene è stato ed è fondamentale in questa analisi perché in assenza di una stabilizzazione del paziente nella sua identità maschile, gli sarebbe assolutamente impossibile un’analisi costruttiva della colpa, la quale non può essere elaborata che con il supporto della propria validità virile. Evidentissima è poi l’ambivalenza nei confronti dell’analista. Giovanni vuole mostrare i diari ma vuole, contemporaneamente, tenerli solo per sé; parla alla propria madre nell’esigere dalla terapeuta il “diritto di essere forte”; compie veramente l’Edipo la ove coita con una donna sul palcoscenico, recuperando contemporaneamente il padre; prova il piacere ed il bisogno della dipendenza e contemporaneamente avverte “la forza che lo tira indietro da ogni piacere della dipendenza”; la strada che porta al “ricevere la propria identità da parte di una donna” è chiusa ed aperta allo stesso tempo. E’ da notare come tali contraddizioni o ambivalenze non vengano semplicemente mostrate dalla terapeuta, ma trasformate ripetendole in modo costruttivo nel controtransfert. Da un canto abbiamo infatti “la capacità di inserirsi nel suo modo di pensare” rimanendogli accanto attiva, insistendo con le domande e le confrontazioni; dall’altro la capacità di comprendere la sua paura di esporsi evidenziata anche dal timore di violare l’intimità del paziente portando qui, al gruppo di supervisione, i suoi diari. Siamo ancora in alto mare. Ma vediamo lontano la costa di una nuova identità del paziente.

Note catamnestiche di Eugenia Omodei Zorini.

Ho partecipato alle supervisioni di gruppo con il Professor Benedetti dagli anni ’80 fino all’inizio degli anni ’90. Per alcuni anni ho fatto supervisioni individuali, fin quando mi fu richiesta la disponibilità a lasciare il posto ai più giovani. La mia formazione avveniva con il gruppo di Psicoterapia e Scienze Umane. Fu Teresa Corsi, socia della cooperativa Psicoterapia e Scienze Umane e del gruppo di via Alberto da Giussano, a offrirmi l’opportunità di seguire i gruppi di supervisione condotti da Benedetti e  Cremerius. Non entro nel merito delle elaborazioni teoriche apprese, nonostante siano state profondamente rilevanti per la mia formazione. Desidero invece evidenziare due aspetti, soggettivamente particolari e unici, che hanno avuto un significato maturativo personale nella mia formazione professionale. In seduta, con i pazienti, avevo facilmente reazioni somatiche o anche potevo avvertire immagini (come la fantasia del pene, nel caso in oggetto, oppure borborigmi specifici con un certo paziente, tosse stizzosa, ecc…). Una parte di me aveva sempre interpretato questi fenomeni come partecipazione controtransferale profonda, ma isterica e nevrotica alle vicende del paziente. Mi davo un gran daffare per superare tutto ciò, anche per l’imbarazzo che mi creava. A un certo punto pensai che comunque potevo cercare di trarne un vantaggio di comprensione e in questo modo attutii la mia lotta interna. In quel periodo iniziai le supervisioni con il Professore. Fu per me una liberazione, un’esperienza di “positivizzazione” di un fenomeno che pur avendo tratti nevrotici, è soprattutto una comunicazione tra inconsci e va trattato con la massima attenzione e rispetto. Ho potuto ottenere risultati insperati in certe terapie, proprio seguendo la manifestazione somatica mia e del paziente. Ho una profonda gratitudine per il Prof. Benedetti che mi ha indicato la strada e mi ha insegnato ad ascoltare il corpo e l’inconscio in queste sue espressioni. Il secondo aspetto, che ben si coglie nel suo commento al caso Giovanni, è l’ascolto e la ricerca del dramma esistenziale che viene manifestato dalla sintomatologia del paziente. Non ho avuto nessun altro Maestro così attento alla ricerca del senso profondo, positivo, umano, vitale delle manifestazioni del paziente, così attento a fare ciò che permette che la ricerca esistenziale riprenda una evoluzione progressiva. Nel mio lavoro, grazie al suo insegnamento, questo è diventato un ancoraggio forte e determinante che nutre l’entusiasmo, rinforza l’attesa di ritrovare la speranza, quando questa sembra annullata, quando tutto sembra sprofondare nel negativo, quando l’attacco distruttivo del paziente e della malattia si abbatte contro la terapia. La scoperta psicoanalitica che non esiste un confine preciso tra normalità e patologia, che incontriamo persone in difficoltà che chiedono un aiuto, non “trattati di patologia”, si è, nella mia esperienza, ampiamente incarnata e dispiegata nell’incontro umano, attento, rispettoso e memore del professore con me e con i pazienti da lui supervisionati.

Ho incontrato “Giovanni”. L’analisi è terminata una ventina d’anni fa. Gli ho dato copia del commento di Benedetti. Forse mi manderà qualcosa di scritto rispetto alla sua catamnesi. Ha un ricordo profondo della sua analisi che ritiene sia stata altamente significativa e mutativa. Ha risposto pienamente alle sue speranze. (Forse una bella idealizzazione?). Comunque lavora con grande interesse nell’ambito della formazione aziendale. Vorrebbe ampliare la consultazione aziendale per difficoltà personali dei dipendenti. Ha superato positivamente alcune difficoltà di salute della moglie e sue. La figlia è ormai adulta, indipendente e vitale. Vorrebbe, forse, tornare a fare qualche colloquio, poiché il suo desiderio di capire ed elaborare è sempre molto vivo. Non è, né si sente più invisibile, bensì sente di occupare un posto vivo e ampio di successo relazionale.   

Il caso Livia di M. V. Lurja.

Il quesito

E’un caso questo che mi ha realmente messo alla prova. La violenza che Livia….porta in analisi mi paralizza. Sto cercando di lavorare con lei, nonostante questo. Mi chiedo, continuamente, cosa possa consentire di  reggere attacchi così pesanti. Mi sento continuamente assediata. In stato di guerra. Immagino siano la guerra, la violenza, il  terrore che sono dentro di lei. E’ questo, forse, il transfert inanitario di cui parla Winnicot?

Il quesito è, letteralmente, come fare a sopravvivere ad un transfert del genere.

La storia di vita

Livia ha 40 anni. La famiglia ha origini meridionali.

Si sono trasferiti a Milano quando lei aveva 3 anni. Il padre è un camionista. Un uomo violento, che picchiava la moglie e pretendeva obbedienza assoluta dai famigliari. Molto violento era anche il fratello maggiore. Livia veniva picchiata da entrambi. Quando era bambina ma anche una volta divenuta adulta. Secondogenita, il fratello maggiore di 4 anni, una sorella minore  di un paio d’anni e l’ultimo genito 34 anni, sordomuto, verso il quale Livia ha un legame estremamente ambivalente. Le suscita tenerezza ma anche rabbia, specialmente quando è violento e quando lo scopre del tutto incapace di badare a se stesso.

Con loro viveva anche la nonna paterna, una vecchia strega dice Livia, che odiava la madre e lei, la sorella, le donne forse in generale e che lanciava loro maledizioni… le prediceva che sarebbe morta affogata nel pozzo…che certo avrebbe fatto una brutta fine perché voleva uscire la sera.

La nonna urlava e il fratello maggiore la picchiava, mentre la madre rimaneva lì, passiva e depressa sempre.

Non aveva potuto studiare e davvero avrebbe voluto. Finite le scuole medie aveva trovato un lavoro come commessa e se ne era andata da quella casa “infernale” sposando un uomo, purtroppo, simile al padre; un uomo stupido “che voleva comandare anche lui”. Poi la madre si era ammalata di cancro e Livia aveva deciso di tornare per occuparsene assieme alla sorella. Non amava la madre, da sempre lamentosa e depressa, ma aveva colto l’occasione per lasciare questo marito, a sua volta divenuto odioso e che riteneva di aver sposato per errore. A 34 anni si era risposata. Il secondo marito non era violento, era stata molto attenta a questo, ma non le piaceva: troppo pignolo e noioso. Non lo lasciava perché ha paura della solitudine o di quel che avrebbero detto i suoi famigliari, ma la fa davvero infuriare quest’ennesimo uomo insopportabile

La terapia

Livia ha 39 anni quando la incontro. Un’amica le ha fatto il mio nome.

E’ stanca del marito, stanca della vita che fa, della madre che non si decide a morire, dei troppi pesi che sente incombere su di lei. Ha paura di ammalarsi. Non ha nessuna fiducia nelle terapie. Ne ha già fatte un paio ma sono andate male, malissimo. Livia è piena di rabbia, ha un’espressione costantemente fosca. Non è brutta, è una donna abbastanza curata ma molto rigida.

Si muove con un fare altezzoso e fa davvero fatica a parlare delle sue origini.

Comprendo immediatamente che proietta il suo vissuto e la sua impotenza trattando me come immagino tratti tutti, con alterigia ed arroganza.

Non so bene perché ho accettato Livia, è stato quasi come servisse a me la terapia, come se dovessi essere io a chiederle di venire da me.

Mi sono trovata quasi a pregarla di venire almeno due volte alla settimana. Quindi lei ha iniziato questa terapia come per fare a me una concessione e, quando me ne sono accorta, era ormai tardi. Mi sono sentita incastrata.

Quindi Livia viene in analisi, viene puntuale, entra senza quasi salutare, mi guarda fosca, parla con tono monocorde a voce così bassa che quasi mi impedisce di sentirla e contribuisce a favorire quella sensazione di morte che pervade tutta l’analisi.

Livia mostra un assoluto disprezzo per qualunque interpretazione, anzi per qualunque cosa io dica. Il suo atteggiamento è costantemente accusatorio nei miei confronti, perfino della precedente analisi fallita accusa me, mi rende insofferente, incapace non solo di interpretare  ma addirittura di pensare con la sgradevolissima sensazione di “spezzettamento dei pensieri”.

Mi attacca sistematicamente. Mi sento stretta all’angolo con la chiara consapevolezza che l’aggressività di Livia deve venire interpretata ma che devo farlo al momento giusto e cioè proprio quando lei mi stimola a contro-attaccare.

Cerca sempre di farmi sentire e diventare cattiva.

Mi accusa, piangendo, di non averla chiamata per conoscere l’esito degli esami clinici che per l’ennesima volta si era fatta prescrivere.

Io sono cattiva, cattivo è Sandro il marito che anche se ne frega di lei. Se cerco di mostrarle dati di realtà che sconfermano queste sue convinzioni diventa furiosa: Sandro è un mostro e io anche che lo difendo.

L’unica persona buona che Livia conosce è la sorella. Un angelo. Angelo che rende però lei sempre cattiva al confronto. La sorella è un’infermiera e dirige le operazioni nell’accudire la madre. Livia le è davvero grata per tutto quello che fa. Così almeno dice lei! La mia percezione dell’ambivalenza sottostante viene confermata da un sogno in cui la sorella le regala un cucciolo, un cagnolino perfettamente ammaestrato.

Così Livia decide di farselo regalare davvero un cagnolino.

Io non so bene cosa pensare.

C’è un’identificazione con la sorella? Con me?

Sta emergendo in Livia il desiderio di prendersi cura di qualcuno?

Ma anche Beniamino, ecco il nome che sceglie, è destinato a subire la sorte di tutti noi, mariti e analisti. Beniamino è cattivo, distrugge tutto, morde tutti e Livia ben presto minaccia di farlo sopprimere…..merita di morire.

Come me? Come la madre? Come tutti quelli che non soddisfano le sue richieste?

Beniamino diventa il protagonista di molti sogni.

In uno di questi Livia passeggia nel bosco con il cane che la trascina verso un burrone. Sul fondo c’è una carretta ferita. Beniamino cerca di attirare la sua attenzione. La capretta le fa tenerezza e Livia si sveglia pensando che meriterebbe di essere salvata.

Io cerco, seguendo le sue associazioni, di farle osservare che dovremmo certo prenderci cura della piccola capretta nel burrone ma anche della parte di lei che ce l’ha fatta finire.

Per la prima volta Livia non mi attacca.

Ascolta la mia interpretazione e non replica nulla.

Sono davvero stupita. Sono riuscita a toccare Livia?

Temo comunque continuerò a sentirmi inchiodata alla sedia ancora per molto tempo.

8. Narcisismo distruttivo e psicosi latente. La gestione del controtransfert con pazienti estremamente aggressivi. Commento di G. Benedetti al caso Livia. (28.3.1992)

Nella famiglia di Livia vi è una carica di violenza che si trasmette di generazione in generazione, attraverso l’introiezione di oggetti cattivi che, rifiutati dalla coscienza con veemenza, diventano  tutt’uno con il “Sé negativo”. Il rifiuto dell’introietto è evidente in Livia che urla il suo odio per il padre che picchiava la moglie e pretendeva obbedienza assoluta dai famigliari; per il fratello maggiore che, identificatosi con il padre, picchiava la sorella già grande quando questa gli chiedeva di uscire la sera; per la madre che, ammalata di cancro, pesava sulle figlie; per il fratello sordomuto a volte violento e incapace di badare a se stesso; per la nonna, che le prediceva che sarebbe morta affogata nel pozzo; per il primo marito, “che voleva comandare anche lui” e per il marito attuale, pignolo e noioso. Il meccanismo di difesa che così si evidenzia consiste nel colpevolizzare e demonizzare i partners tutti con tale odio e rabbia da rendere il Sé colpevolizzante a sua volta colpevole, cattivo, aumentando così ulteriormente la rabbia, che sembra concretizzarsi negli occhi, nell’espressione costantemente fosca della paziente. Rabbia che naturalmente è presente sin dall’inizio nel transfert come alterigia, arroganza, invidia, disprezzo per le interpretazioni, atteggiamento costantemente accusatorio nei confronti dell’analista. Leggendo il manoscritto si ha l’impressione quasi di respirare quando Livia, nel corso di una seduta, si limita semplicemente a cambiare discorso dopo un’interpretazione. Il suo transfert pervaso di rabbia non solo genera, come avviene usualmente, un controtransfert caratterizzato da insofferenza, ma addirittura la sensazione di uno “spezzettamento dei pensieri”. L’aggressività di Livia si esprime inoltre attraverso il “tono monocorde” della voce, che quasi impedisce di sentirla e contribuisce a favorire “quella sensazione di morte che pervade tutta l’analisi”. Perfino della precedente analisi fallita viene colpevolizzata la terapeuta attuale. La relazione analitica è resa particolarmente difficile sia dalla sistematica precisione con cui la paziente sferra i suoi attacchi, facendo ad esempio di Simone un mostro, impedendo alla terapeuta di esprimersi, tenendola lontana da sé; sia dalla presenza di violentissime resistenze associate all’assoluta incapacità della paziente di prendere coscienza della propria aggressività. Il controtransfert, in casi simili, dovrebbe essere orientato tenendo presenti quattro dimensioni fondamentali. Anzitutto una relativa indifferenza per l’aggressività del paziente, da cui è necessario non attendersi nulla, nessuna gratificazione libidica e nessun miglioramento clinico. Neppure l’insight, che il paziente sadico non concederà mai all’analista, se pure lo avesse. Nulla, tranne l’onorario, che il terapeuta deve esigere rigorosamente, nonostante tutte le proteste del paziente. La relativa indifferenza nei confronti dell’aggressività del paziente si ottiene attraverso una continua operazione di regolazione controtransferale, che consiste nel tenere costantemente presente che chi viene attaccato non è tanto il terapeuta in sé quanto l’introietto proiettato su di lui. Dobbiamo consentire al paziente di distruggere tale introietto in noi senza battere ciglio. La seconda dimensione controtransferale consiste nel mostrare ininterrottamente al paziente l’inadeguatezza dei suoi meccanismi difensivi. L’analista deve mostrargli che continuando ad attaccare e colpevolizzare tutti non fa che accrescere la propria rabbia, perché finisce con il sentirsi cattivo, colpevolizzando poi di nuovo se stesso. Il paziente rifiuta l’insight relativo alla propria aggressività perché non si ama abbastanza per poterne prendere coscienza senza cessare di esistere. La terza dimensione controtransferale che propongo riguarda la necessità di stare attentissimi a quei rari momenti del transfert in cui il paziente, sia pure in modo pretenzioso e irrealistico, formula delle richieste affettive. Quando Livia pianse perché la terapeuta non le aveva telefonato a casa per conoscere i risultati dell’esame, sarebbe stato possibile interpretare dicendole: “la sua è una profonda richiesta d’affetto, che però le è possibile esternare solo a patto di contemporaneamente accusarmi, per tenermi in tal modo lontana da lei.” Sono d’accordo con tutte le altre interpretazioni fornite dall’analista, in particolare rispetto ai sogni e anche con lo stile “robusto”, che consente di interpretare che la terapeuta non si limita a prendersi cura della parte dolorante della paziente, della capretta nel burrone, ma che si deve occupare anche di quella parte di lei che non vuole uscire affatto dal burrone. Interpretando quindi quello che Rosenfeld ha denominato “narcisismo distruttivo”. Un’interpretazione possibile sarebbe inoltre quella di mostrare alla paziente che la sua situazione è disperata e quasi senza via d’uscita, perché in lei c’è da un canto il desiderio di lavorare con un terapeuta, altrimenti non starebbe per tanti anni di seguito in analisi, e dall’altro una paura terribile di questo lavoro comune, che rischia di farla diventare, come comunica attraverso il sogno, il “cagnolino ammaestrato” che fa divertire l’altro per ottenerne l’elemosina. Lo spettro della “sorella buona” la rigetta costantemente in un’alternativa di cattiveria per poi spingerla a cercare nuovamente di essere buona, colpevolizzando tutti. La quarta dimensione controtransferale riguarda l’interpretazione delle potenzialità creative dell’aggressività, la cui espressione viene però pervertita laddove è utilizzata per bloccare la comunicazione. La terapeuta scrive che con Livia bisogna stare attenti, perché vi è da un canto la necessità di interpretare l’aggressività, ma d’altro canto quella di interpretarla a tempo e cioè nel momento in cui lei vuole indurre contro aggressività. Rispetto a questo ultimo punto io direi che c’è una parte di Livia che vuole guarire, ossia che non vuole provocare un linch terapeutico, ma un’altra parte che vuole provocare contro aggressività perché è più facile difendersi da un analista irritato che non dal proprio Super Io. In tal modo diviene però impossibile l’analisi del Super Io stesso. Io propongo di interpretare l’aggressività non semplicemente mostrandola, ma decifrandola come una difesa nei confronti dell’oggetto cattivo superegoico, che magari può assumere le fattezze di Simone o della terapeuta stessa quando non la capisce. Una difesa inutile perché per quanto veemente possa essere l’espressione aggressiva, non potrà mai distruggere il potentissimo Super Io, ma finirà per distruggere l’Io, rendendolo “degno di morte” come Beniamino. Anche se Beniamino era affettuoso, esso doveva tuttavia morire perché morsicava tutti: è così che il Super Io condanna anche lei! Purtroppo Livia ha il bisogno masochistico di farsi condannare dal Super Io ed è per questo che rimane con Simone. Non tanto perché ha paura della solitudine o di quel che direbbero i suoi, ma anche e specialmente perché infuriandosi contro l’insopportabile Simone entra nel girone della rabbia e della colpa, che è purtroppo l’unico modo in cui riesce a darsi un’identità. E a questo punto, parlando della paura di perdere la propria identità perdendo quella assicurata dal cerchio mortifero della rabbia e della colpa, debbo avanzare in ultimo, proprio per quanto detto, l’ipotesi della psicosi latente. Oltre all’ipotesi del Sé-oggetto cattivo, che è l’ipotesi sia di Melanie Klein come anche, in un altro senso, di Kohut, io desidero ipotizzare l’esistenza di un nucleo psicotico latente. Nella mia esperienza vi sono pazienti che a causa di una “area di morte” interna, rischiano di esperire se stessi come esseri senza volto, ma che tuttavia, per il fatto di non essere francamente psicotici, si difendono da tale percezione spaventosa dandosi un volto attraverso il continuo attacco all’altro. Essi hanno bisogno “dell’avversario terapeutico” perché solo nell’incontro con esso, nel continuo attacco distruttivo, percepiscono un volto in sé. Ricordo a questo proposito il sogno di una paziente simile, paziente che nella veglia non era psicotica, ma che nel sogno era al centro di una persecuzione. Nel locale dove lei cercava di rifugiarsi c’erano persone senza volto che non l’aiutavano. L’unica persona che accorreva in suo aiuto era una donna con il volto dell’uomo che viene ucciso, nell’esecuzione di Francisco Goya. La paziente era talmente distruttiva nei riguardi della terapeuta che questa in supervisione ebbe a dire: “la ucciderei!” Io credo che in casi simili l’unico modo per non arrivare al limite del sopportabile sia il silenzio terapeutico, che permette al paziente di esprimere la sua aggressività e al terapeuta di rimanerne in un certo senso fuori, di non entrare, attraverso il tentativo di discorso, nella linea di fuoco del paziente. Una terapeuta che si senta inchiodata alla sedia, così come la paziente si sente inchiodata nella mente, può forse consentire la trasmissione inconscia di questa dualità rendendo infine possibile a Livia, Deo concedente, accettare le interpretazioni.